Scritto il 05 Nov 2025
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VENTUPLICATA LA TASSAZIONE SU MOLTI DIVIDENDI: LA VERA NATURA DELLA STRETTA NELLA LEGGE DI BILANCIO 2026

La proposta di legge di bilancio 2026 contiene una misura che, dietro la facciata di un intervento “anti-abuso”, è in realtà una ingiustificabile  penalizzazione per le imprese.
Si vogliono tassare integralmente i dividendi percepiti da società che detengono partecipazioni inferiori al 10%, sostenendo che si tratta di una stretta contro l’uso improprio di un’agevolazione. Ma non è così.
Non si colpirebbero abusi, ma si eliminerebbe una regola di equilibrio introdotta vent’anni fa per evitare la doppia imposizione degli utili. Una norma di civiltà fiscale, che ora si vuole cancellare con una narrazione ingannevole.

Non un privilegio, ma una correzione strutturale

L’utile d’impresa viene già tassato in capo alla società che lo ha prodotto.
Tassarlo di nuovo in capo all’impresa che lo riceve come dividendo significa colpire due volte lo stesso reddito.
L’esenzione del 95% dei dividendi – prevista dall’art. 89 del TUIR – non è un regalo. È un principio cardine introdotto con la riforma IRES del 2003 (d.lgs. 344/2003).
La Relazione governativa che accompagnava il decreto era esplicita: la nuova disciplina dei dividendi serviva a «ridurre gli effetti di doppia imposizione economica derivanti dalla tassazione dell’utile sia presso la società che lo produce sia presso la società che lo riceve».
Anche la circolare 26/E del 16 giugno 2004 dell’Agenzia delle Entrate ribadì che la parziale esclusione dei dividendi aveva una finalità precisa: neutralizzare la doppia imposizione economica.
Non si trattava quindi di un’agevolazione, ma di una regola strutturale per garantire coerenza tra la tassazione della società che genera l’utile e quella che lo riceve.

La quasi totalità dei Paesi OCSE adotta un sistema di “participation exemption”, che neutralizza la doppia tassazione e favorisce la capitalizzazione delle imprese.

Cosa cambia con la manovra 2026

La proposta di legge prevede che l’esclusione del 95% valga solo per chi possiede almeno il 10% della società che distribuisce gli utili.
Chi detiene quote minori vedrà i dividendi tassati integralmente al 24% (aliquota IRES), come se fossero redditi nuovi.
La differenza è enorme: oggi un utile di 100.000 euro, che ha già scontato imposte per oltre 38.000 euro, genera un’imposta effettiva di altri 1.200 euro quando viene distribuito come dividendo ad un socio che pesa meno del 10%; con la nuova regola diventerebbero altri 24.000.
È un aumento di venti volte, privo di alcuna giustificazione economica.
La relazione tecnica stima un gettito aggiuntivo, cioè maggiori imposte per le imprese, di circa un miliardo di euro all’anno: una misura di pura cassa, non di equità.

Il falso mito della “lotta agli abusi”

Definire questa norma “anti-abuso” è un rovesciamento della realtà.
L’abuso, in questo caso, sarebbe quello dello Stato che reintroduce una doppia imposizione già riconosciuta come ingiusta.
La soglia del 10% non ha alcuna base economica: la tassazione dei dividendi non dipende dal controllo societario, ma dalla natura del reddito distribuito.
E quel reddito è già stato tassato una volta.
Rimettere in discussione il principio della participation exemption significa rendere più oneroso e meno competitivo il sistema fiscale italiano, proprio mentre altri Paesi europei lo rendono più stabile per attrarre investimenti.

Non si corregge alcun abuso: si crea una distorsione.
Si penalizzano strutture legittime – holding familiari, società industriali con partecipazioni frazionate, veicoli di investimento – e si rende più costoso detenere quote di minoranza in aziende produttive.

Una conclusione amara

Dietro la spiegazione della “razionalizzazione”, come spesso accade, si nasconde una nuova tassa immotivata sulle imprese: sulle piccole holding, sui gruppi familiari e su chi detiene partecipazioni di minoranza per motivi industriali o patrimoniali.
Non si colpiscono gli evasori, ma le imprese corrette. Non si corregge un’ingiustizia, la si crea.
Questa misura manda un messaggio chiaro: quando occorre reperire risorse si colpisce dove è più facile, non dove è più sensato.
Un passo indietro di vent’anni, vestito da riforma tecnica.

Alle imprese resta solo un palliativo: anticipare la distribuzione degli utili.

Le delibere fino al 31 dicembre 2025 restano soggette al vecchio regime: meglio distribuire prima, non dopo.

E poi possono far sentire la propria voce. Non solo per chiedere che il Parlamento corregga un errore, ma per far capire che questo metodo non va, che siamo cittadini, non bancomat da cui prelevare a discrezione.

Christian Penso