Scritto il 07 Lug 2022
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CRIPTOVALUTE: LO STAKING SECONDO L’AGENZIA DELLE ENTRATE

In materia di criptovalute, un passo alla volta l’Agenzia delle entrate continua il proprio ruolo di supplenza rispetto al legislatore, e prova a inquadrare nuovi fenomeni in vecchi schemi.

È toccato ora allo staking.

Lo staking è un processo che consente ai possessori di una specifica moneta cripto di guadagnare ricompense.

La parola deriva dal meccanismo “proof-of-stake”, utilizzato da alcune reti blockchain, che serve a convalidare le transazioni di blocco: i soggetti validatori assicurano la correttezza delle operazioni svolte, dando a garanzia della propria attività quantità prefissate di criptovaluta, e, se il processo va a buon fine correttamente, ricevono in cambio una remunerazione.

Per l’utente comune si tratta di tenere bloccati per un certo tempo fondi in un wallet di criptovalute presso un soggetto validatore, per sostenere la sicurezza e le operazioni di un network blockchain e ricevere ricompense.

Il dubbio di natura fiscale poteva essere se tali ricompense costituiscano redditi di capitale o appartengano piuttosto alla categoria residuale dei redditi diversi. La tassazione delle due tipologie di reddito è differente.

Proprio su questo si è espressa l’Agenzia delle entrate (con la risposta ad interpello 956-771/2022), la quale ha anzitutto ribadito che le operazioni in crypto sono soggette alle imposte dirette (come già affermato nella risposta ad interpello 788/E del 2021), e che alle operazioni in valuta virtuale si applicano le norme che disciplinano i redditi derivanti dalle operazioni in valuta estera. Questo, è la discussa tesi dell’Agenzia, comporta che alle eventuali plusvalenze che derivino da cessioni si applica la disposizione per le valute estere (art. 67, comma 1-ter del Tuir), ossia la tassazione al 26%, ma solo se si tratta di valute detenute per un controvalore (al cambio del 1° gennaio) superiore, per almeno sette giorni lavorativi continui, a 51.645,69 euro.

Tornando allo staking, l’Agenzia ha affermato che la remunerazione per lo svolgimento di tale attività – la “validazione diffusa” nell’ambito dei processi blockchain – è da considerare reddito di capitale (art. 44 del Tuir), di fatto come un interesse attivo, e come tale deve essere tassata con aliquota del 26%, anziché in base alle aliquote personali crescenti, solitamente più alte.

Il privato che non opera tramite intermediari italiani che effettuano ritenuta, è pertanto tenuto a quantificare e tassare le plusvalenze nella propria dichiarazione dei redditi.

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Christian Penso